Stefania Boleso

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Da influencer a consulente: una mutazione possibile?

Conosco Chiara Formenti da anni, è un vulcano di idee, iniziative e soprattutto riflessioni interessanti.

Qualche settimana fa, a seguito di alcune sue Instagram stories (@chiara_ottocollective il suo account), abbiamo cominciato a riflettere sul fenomeno degli influencer.
Il punto di partenza, che ci trovava entrambe d’accordo, è il seguente: non necessariamente un bravo influencer riesce anche ad essere un valido consulente per le aziende, esattamente come non tutti i grandi atleti diventano dei grandi allenatori: qualcuno ce la fa, la gran parte invece no…
Saper far bene qualcosa, in altre parole, non significa poter estendere le proprie competenze in altri ambiti, dove i requisiti necessari sono diversi, dove è fondamentale conoscere e saper creare una strategia di marketing complessiva, e non esclusivamente di azioni tattiche di breve periodo.

Potrei scriverne per pagine e pagine, ma lascio la parola a Chiara e alle sue preziose riflessioni.

Photo credits: @Diggity Marketing

Una decina d’anni fa mi invitarono per partecipare a uno speech nel contesto della “Festa della Rete”.

Era il 2013 e dato che all’epoca ero anche una mamma blogger, mi invitarono per dire la mia in qualità di “proto-influencer” quale ero: dico “proto” perché Instagram era ancora un social di nicchia. 

In quell’occasione raccontai di come una mamma blogger americana fosse stata reclutata all’interno di una azienda con target prima infanzia al fine di lavorare allo sviluppo delle strategie e delle tattiche per le reti sociali e per tutto ciò che più in generale riguardava la comunicazione via web. 

Sostenni che il futuro della relazione tra blogger e aziende sarebbe stato più o meno così: in effetti il tempo mi sta dando ragione.

Nel 2013 partivo da un presupposto errato, però. Quale?

Supponevo - sbagliando - che solo chi avesse delle competenze nella professione “strategica” potesse affacciarsi alle aziende con skills arricchite e ingrandite dalla pratica sul campo nell’universo di internet. 

Per le aziende e i brand la collaborazione tra blogger prima e influencer dopo è sempre stata una pratica comune. C’era e c’è ancora oggi, il disperato bisogno di “capirci qualcosa”, quindi assoldare qualcuno che nuota in queste acque ogni giorno, appare la decisione più sensata. 

Eppure alle soglie del 2020, vedo la sensatezza morire.

Avere molti follower sui social network non è necessariamente sintomo di una spiccata genialità nella definizione e implementazione di una qualsivoglia strategia aziendale.

Credo che sia questo il misunderstanding più grande: il numero. Un cortocircuito che ha modificato il glorioso “content is the king” in “numbers are the emperors”.

La prima evidenza di questo malanno è che le tattiche, son state scambiate per strategie e, brandite come bandiere al merito, accompagnano svolazzanti la marcetta trionfale che ha come ritornello: “facciamo un progetto”.

La parola strategia è stata annegata in oceani di soluzioni semplici e tattiche belline che mettono un cerotto ai problemi complessi dei marketing e communication manager, ossia: definire un percorso di senso di medio e lungo periodo rispetto a valori, missioni e caratteristiche dell’azienda, del brand e del prodotto. 

Le soluzioni solide non sono fatte di filtri “fancy” o improbabili raccontini a corredo di un post: prevedono uno sforzo che va oltre l’esemplare esecuzione di un brief e dello “storytelling” non se ne fanno nulla perché è bene dirlo: è la narrazione, quella complessa, che fa la differenza.

Con ciò io non dico, né ho mai sostenuto, che la cooperazione tra aziende e influencer sia una liaison malvagia, al contrario ci credo fortemente; non posso accettare il pressapochismo qualitativo né la soluzione preconfezionata venduta a peso d’oro sotto forma di corso o consulenza. 

Un pressapochismo che esiste anche a livello di aziende e agenzie, poco propense o educate (chiaramente hanno i consulenti sbagliati 😊) a quell’innovazione che potrebbero ottenere nel guardare oltre le solite scelte ridondanti che portano a stereotipare tutto.

Cosa mi piacerebbe? L’onestà di intenti.

Mi piacerebbe che ognuno sia così onesto da dire: faccio il mio mestiere e ti do una mano in un processo di co-creazione strategica. Un vero e proprio processo di co-creazione, sì. 

Un processo fatto di regole e metodi per incanalare nel miglior modo possibile i bisogni del brand con la creatività dell’influencer al fine di creare valore per il pubblico.

Oggigiorno metodologie come il design thinking e l’approccio archetipico danno una grandissima spinta verso questa co-creazione e certamente un vantaggio per ambo le parti sarebbe affidarsi a un consulente -vero - capace di porsi nel mezzo, dettare le tempistiche e le tasks, imporre obiettivi e spingere al miglior risultato possibile di medio periodo.  Un processo verso il valore, in sostanza.

Ritengo inoltre che non sia davvero possibile, in un mondo così fortemente frammentato, usare il paradigma “one method, fits all”, al contrario ritengo che la consulenza nell’ambito digital (e non solo) sia sempre più personalizzata e profonda pertanto la mutazione genetica dell’influencer che più auspico è più vicina all’etnografo che al “communication guru”. 

Essere capaci di spiegare e interpretare “riti, rituali, cerimonie, norme, valori, credenze, comportamenti” della propria fan base è nientemeno che potere, il potere del XXI secolo: entrare nelle tribù ed esserne leader. 

Chiara Formenti

[Per saperne di più su Chiara Formenti e sul suo lavoro www.ottocollective.com]