Dialoghi sullo storytelling

Storytelling.jpg

Storytelling aziendale è una parola di moda: tutti ne parlano, tutti ne scrivono. Per rendere interessante un discorso un po’ moscio o privo di contenuti rilevanti, basta aggiungere il termine storytelling qua e là per risollevare l’attenzione. Il termine viene però spesso usato a sproposito, o comunque svuotato del suo significato originario e più autentico. Mi sono fatta l’idea che le aziende decidano di cavalcare questo trend, senza aver pienamente capito che fare storytelling per un'azienda non significa semplicemente raccontare una bella storia, quanto piuttosto (a mio avviso) essere innanzitutto autentici.

Ho voluto confrontarmi in proposito con un esperto, una persona che si occupa di storytelling aziendale da tempo (e che guarda caso è anche un grande amico): Massimo Benedetti, già stato ospite su questo blog tempo fa (qui il suo post).

Ne è nato un confronto interessante che, spero, potrà dare spunti di riflessione anche a voi.

Le storie non sono solo quelle che un brand racconta di proposito nella sua comunicazione. Le storie si vedono anche (o meglio, soprattutto) in ogni punto di contatto con il consumatore.  Quanto la storia è di proprietà azienda, così come viene scritta a tavolino magari insieme a qualche brava agenzia di comunicazione, e quanto invece è nelle mani di chi in questa azienda ci lavora (i dipendenti) e di chi con questa azienda interagisce in maniera regolare (i clienti)?

Macs: Sono convinto che la forma “più alta” di storytelling aziendale sia quella che viene consegnata in mano al pubblico. Non è semplice, a mio avviso, mi vengono in mente due motivi che provo a condividere:

Chi ti conosce? E tu lo conosci? Conoscere un pubblico vuol dire sapere esattamente ‘dove’ vuole sentirsi coinvolto. In qualunque tipo di storia, non si ascoltano mai abbastanza le storie del pubblico prima di provare a buttarlo nella propria.

Gelosia canaglia che è una questione che coinvolge tutti, dallo stratega all’operativo. Se la storia parte da me, è mia. La storia coinvolge perché faccio fare qualcosa al pubblico: metti la faccia, scrivi il tuo nome, raccontaci come lavori, fai vedere le tue emozioni. Magari diventa anche virale, quelle cose dal basso (studiate strategicamente), diffusioni pazzesche da community. Però, e forse vado sul filosofico/astrofisico/metastorytelloso, nulla ha a che vedere con la partecipazione vera, l’aggiunta di valore da parte del pubblico.

La questione potrebbe cambiare di senso la narrazione stessa, perché il senso viene co-costruito da azienda e pubblico. Ma forse questa è talmente complicata perché non può essere guidata e incasellata, una sorta di storytelling anarchico in cui la storia principale subisce così tante derive che perde addirittura il tema di fondo.

Mentre per quanto riguarda i dipendenti possiamo affermare tutti insieme che essi siano i primi da coinvolgere nello storytelling aziendale. Al di là della retorica è così, se una azienda non riesce ad appassionare prima i dipendenti è molto difficile che riesca ad appassionare un pubblico esterno. La mia esperienza è con aziende di piccole dimensioni (siamo sotto, molto sotto i 200 dipendenti) e potrebbe sembrare più semplice, trattandosi di famiglie, micro imprese dove tutti si danno del tu. Si tratta di mettere al centro la condivisione degli obiettivi con le persone che, qualunque sia il numero di clienti che conquisterete, frequenteranno di più la vostra azienda: collaboratori e dipendenti.

Cosa succede quando la storia che un’azienda vorrebbe fosse la sua, perché è quella che si sforza di raccontare, non è la storia che i dipendenti raccontano nello svolgimento delle loro attività quotidiane a contatto col pubblico, né tantomeno quella che il pubblico percepisce come appartenente a quella azienda?

MACS: Ti condivido queste reazioni (dimmi cosa ne pensi):

  1. Il pubblico NON capisce perché sono un branco di asini, non leggono, non mettono “like”, non aprono le mail, non vengono mai agli eventi. E allora giù di tecnicismi finché ce n’è e, a volte, finché il figlio giovane di uno dei capi smanetta sui social per provare a mettere la storia negli occhi e nelle orecchie del pubblico. Ma dimenticandosi il posto migliore per le storie: il cuore.
  2. Il pubblico DEVE capire che il nostro racconto è diverso, avanti così, prima o poi si sveglieranno. Abbiamo sempre fatto/detto così, pensiamo a vendere di più, le storie arriveranno. Tanto la gente ascolta quello che vuole ascoltare…
  3. Ferma tutto. Ma quindi è questo quello che pensano di noi? Ma allora è tutto da rifare, rivedere: i prodotti, i processi, il marketing, la comunicazione…chiudiamoci in ritiro e rifacciamo da capo
  4. Ferma tutto. Ma quindi è questo quello che pensano di noi? Ma allora è tutto da rifare, rivedere: proviamo a vedere se riusciamo a coinvolgere il pubblico e i clienti e partiamo dalle loro di storie.

Io sono critica (e spesso piuttosto disillusa): esistono aziende che secondo a tuo avviso fanno davvero storytelling aziendale così come dovrebbe essere fatto? Se sì, puoi citarmi qualche esempio e spiegarmi perché a tuo avviso si tratta di autentico storytelling?

MACS: Diciamo che anch’io condivido la tua opinione e il tuo approccio, e spero di non avere una visione forzata per questi esempi:

Ceres è in piena linea con il suo pubblico, con chi ama la birra, la musica, le feste basta guardare le informazioni sul sito che parla poco (quasi nulle) del prodotto e molto del mondo party/musica. Inoltre Ceres “consegna” la narrazione con operazioni di instant marketing degne del più sagace social media addicted. Gli esempi di sfottò, MEME e tweet sono diffusissimi in rete e condivisi come se non fosse una azienda ma il ‘migliore amico’ a realizzarli. Un altro esempio che vorrei citare è la campagna “Be More Human” di Reebok di cui ho scritto qui. Non  serve essere eroi, ma narratori, ognuno può raccontare la passione per lo sport a suo modo, per l’obiettivo che vuole raggiungere. Anche in questo caso si parla poco di prodotto e molto di come ognuno di noi vive lo stare in forma e dedicarsi alla propria attività con passione. In questo caso la consegna della narrazione è fatta dicendo: ”Vedi che questa cosa è proprio per te? Fai un selfie e raccontaci chi sei”. Ultimo piccolo esempio, un inizio o un miglioramento (dopo la Ferilli) è Poltrone e Sofà con una sezione dedicata agli artigiani della qualità. Purtroppo hanno ancora i riflettori puntati sul prodotto, ma dai, cerchiamo di accontentarci, no?

Recentemente ho letto un articolo molto interessante, in cui si dice che esiste una grande differenza tra il raccontare la propria storia - storytelling, appunto - e viverla. In questo caso si parla di storydoing (parola che, confesso, non avevo mai sentito prima d’ora, ma che mi piace moltissimo). Se è difficile fare storytelling, immagino che sia ancora più difficile fare storydoing… Quante aziende, anche tra gli esempi che tu hai citato qui sopra, a tuo avviso vivono davvero la storia che raccontano?

MACS: Forse, e dico forse, possiamo riprendere il concetto di consegna della storia nelle mani del pubblico. Interpreto a modo mio lo storydoing: ogni giorno ci sono delle sfide aziendali che devono essere affrontate dalle persone che sono dentro all’azienda e da quelle che sono fuori. E dall’altra parte ci sono battaglie personali che finiscono sul posto di lavoro, avventure quotidiane di clienti-pubblico che devono essere considerate dalle aziende. Quindi ogni impresa deve chiedere: quali sono le storie condivise? I dipendenti come vivono tutti i giorni la loro attività, si sentono partecipi delle sfide dell’impresa? E quanto l’azienda si sente coinvolta dalle sfide dei dipendenti, quanto partecipa ad esse? Stessa cosa deve essere fatta per il pubblico da raggiungere o per i clienti affezionati.

Però mi raccomando: ‘chiedere’ non vuol dire ‘chiedersi’, significa proprio attendere una risposta dall’interlocutore e poi costruire la propria storia con il materiale ottenuto, nei casi più coraggiosi ed estremi, senza filtri.

Devi sapere che sto preparando un post dove elenco quelle che a mio avviso sono i tratti distintivi per essere un buon professionista nel marketing. Una di queste caratteristiche è il coraggio. Sei d’accordo con me quando dico che anche per fare storytelling/storydoing di successo un’azienda deve avere coraggio?

MACS: Ecco, appunto, il coraggio è quello di costruire un ‘dialogo narrativo’. Senza voler fare filosofia o psicologia spiccia. Ci va del fegato per dire: ”Questa è la mia identità, tu cosa ne pensi?” oppure “Come stai quando usi il mio prodotto? Come ti vedi in azienda?” Raccontamelo” e poi interagire con le risposte. Ci va il fegato della coscienza pulita, ci va la trasparenza, quella vera. Quella degli eroi che camminano, combattono, cadono, si rialzano e conquistano il tesoro.

(ndr. Io purtroppo di eroi ne conosco ancora troppo pochi… Voi invece?)