La netiquette ai tempi del coronavirus

Si definisce “netiquette” la buona educazione sul web.

Mi riferisco a tutte quelle regole non dette che regolano (o almeno dovrebbero) la relazione tra le persone quando interagiscono online.
Tra queste regole troviamo, ad esempio, non scrivere le parole tutte in maiuscolo, perché equivale ad urlare, oppure non porgere il fianco ai cosiddetti troll, vale a dire tutte quelle persone (e sono tante) che stanno online solo per provocare gli altri, spesso nascondendosi dietro uno pseudonimo.
Sono regole che più o meno conosciamo, perché qualcuno ce le ha raccontate durante un corso, oppure più banalmente grazie al nostro buonsenso.

(Ho scritto qualcosa a riguardo in un post nel 2018 dal titolo Qualche regola di netiquette e in uno altro che risale addirittura al 2015, dal titolo La principale regola della netiquette).

Photo credits: Adam Nieścioruk

Photo credits: Adam Nieścioruk

In queste settimane strane mi sono accorta che la netiquette andrebbe intesa in senso un po’ più ampio, perché molti stanno perdendo di vista l’obiettivo e le basi dello stare online.

Seth Godin, marketing guru che seguo e apprezzo molto (come ben sa chi mi conosce almeno un po’), anni fa dichiarò che “l’interruption marketing è morto”, vale a dire che i messaggi pubblicitari che interrompono in maniera fastidiosa le persone mentre sono impegnati a fare altro (guardare un film, leggere una notizia su un sito di news, chiacchierare con gli amici su Facebook…) non funzionano più, sono percepiti come un fastidio e di conseguenza ignorati.

La mia collega ed amica Patrizia Menchiari lo chiama “vannamarketing”, con riferimento non troppo implicito alle modalità comunicative di Vanna Marchi.

 L’interruption marketing lascia il posto al “permission marketing”, ad attività di comunicazione che riescono ad essere così interessanti e rilevanti per il pubblico da riuscire ad attrarre la sua attenzione, a coinvolgerlo, a sviluppare con lui un dialogo e forse anche una relazione di lungo periodo.
È la differenza che intercorre tra approccio push e pull, tra outbound marketing e inbound marketing, per chi conosce questi termini.

Sono sicura che molti di voi hanno letto o sentito in diverse occasioni che l’approccio push non funziona più, che è ormai superato, che le aziende migliori sono quelle che sono state in grado di scendere dal piedistallo e di dialogare con i loro clienti in un rapporto tra pari.
Addirittura in qualche caso siete voi ad insegnare questi principi ai vostri clienti, in occasione di corsi di formazione o consulenze...

Eppure in queste settimane per molti questi principi sembrano non valere più, come se avessimo dimenticato tutto, come se la quarantena forzata ci avesse trasformati in persone diverse (e non sempre migliori).

Prima osservazione: il principio che dovrebbe guidare una presenza online per scopi professionali è portare valore al pubblico che si vuole raggiungere.
Volendo fare un parallelismo azzardato con lo storytelling aziendale, dove l’eroe è il cliente, online l’eroe è il lettore, e i contenuti che gli proponiamo sono per lui il cosiddetto “oggetto magico”, che dovrebbe aiutarlo a crescere (in termini di conoscenze, competenze, etc).
Questo significa che se ciò che scriviamo, produciamo, proponiamo, è rilevante per il nostro pubblico, lo arricchisce (in senso lato), gli porta valore, abbiamo la possibilità di venire premiati, altrimenti verremo semplicemente ignorati.

Se pubblico a cui ci rivolgiamo è il nostro eroe, evitiamo di tirarlo per la giacca per catturare la sua attenzione. Messaggi di introduzione in cui ci si presenta dicendo: “Voglio condividere con te quello che faccio e ciò che scrivo” non funzionano, perché forse chi sta dall’altra parte non è interessato a voi, è eventualmente più interessato a capire cosa voi potete fare per lui.

Allo stesso modo non importa a quante persone invierete il vostro articolo in privato con la preghiera di condivisione, né quante persone menzionerete nel vostro post per invitarle a leggerlo, soprattutto se questi sono esclusivamente tentativi di ottenere visibilità, non di segnalare al vostro pubblico qualcosa di davvero importante per lui. 

Viviamo in un’economia dell’attenzione, il tempo è una risorsa sempre più scarsa e quindi non sarà certo questo tipo di azioni a rendervi visibili, ma soprattutto memorabili, per i giusti motivi. 

Seconda osservazione: le cosiddette “cold call” non funzionano più. Sono passati i tempi in cui si chiamavano tutti quelli che erano sull’elenco telefonico per proporre il proprio prodotto o il proprio servizio, sparando nel mucchio e sperando nella legge dei grandi numeri.
Quello era interruption marketing, che, come ho scritto sopra, ha perso la sua efficacia.
E allora perché ci sono ancora professionisti che online propongono lo stesso messaggio indifferenziato a tutti, sperando che qualcuno abbocchi? Come pensano di riuscire ad avere successo e di risultare memorabili per le giuste ragioni? 

Spesso capita che a farlo siano gli stessi professionisti che nei loro corsi di formazione sottolineano l’importanza della personalizzazione, del rapporto one-to-one, della cura quasi maniacale del singolo cliente. Predicano bene e razzolano male.

Terza osservazione (e ultima, lo giuro): siamo tutti online in questo periodo, i social network stanno facendo numeri pazzeschi in termini di utenti attivi e contenuti condivisi.  In una situazione del genere è difficile farsi notare, ma non esistono scorciatoie. Quindi il post provocatorio che scatena il dibattito potrà sicuramente servire a farvi ottenere un picco di attenzione, ma non per la giusta ragione, e quindi, a meno che vogliate continuare a presentarvi come dei provocatori e farvi affibbiare questa etichetta, una volta passata la visibilità del momento tornerete nell’oblio.

Il segreto è sempre lo stesso: ciò conta è il valore di ciò che dite o scrivete, il valore che riuscite a trasferire agli altri, non con un singolo contenuto, bensì con un lavoro costante di relazioni, di attenzione, di autenticità, di generosità… 

È difficile, lo so, ma d’altro canto è davvero l’unico modo.

Se c’è qualcosa che ho imparato durante le settimane di lockdown è che le vecchie regole di netiquette e i sani principi della buona comunicazione non sono scomparsi, né cambiati. Di conseguenza non siamo autorizzati a dimenticarceli.

Non è chi urla di più che si fa sentire; è chi dice le cose più interessanti.
Rendetevi dunque visibili per le cose che dite, non perché urlate più forte degli altri.